Qualche nota su Domenico Veneziano

Domenico Veneziano nacque a Venezia intorno al 1410. Trasferitosi poi a Firenze, realizzò opere ‘spaziose’, nelle quali il tocco della luce si posa sulle forme con la sapienza tipica di chi ha conosciuto le luci acquatiche ed i riflessi cangianti della laguna di Venezia e le atmosfere della pittura nordica. L’ esempio forse più noto è la Pala di Santa Lucia de’ Magnoli [Fig.1] realizzata tra il 1445 ed il ’47 per la chiesa fiorentina di Santa Lucia dei Magnoli (in via de’ Bardi). Questa tavola è talmente bella che ne farò una breve descrizione altrove.

Fig. 1, Domenico Veneziano, Pala di santa Lucia de’Magnoli (Sacra Conversazione coi santi Francesco, Giovanni Battista, Zanobi e Lucia), 1445-1447, Firenze, Uffizi

Qui vorrei invece narrare un incredibile equivoco biografico nato intorno alla figura di Domenico Venziano e per farlo è necessario che io scriva un piccolo preambolo.

Pur essendo trascorsi più di quattro secoli dalla pubblicazione delle Vite (Torrentino 1550, Giunti 1568), la celebre opera di Giorgio Vasari (Arezzo 1511 – Firenze 1574), dedicata allo ‘Illustrissimo et Eccellentissimo Signor Cosimo Medici Duca di Fiorenza e Siena’, è ancora un testo indispensabile per tracciare il profilo dell’arte italiana dal XIV al XVI secolo.

L’ opera è un testo con finalità principalmente didascaliche in cui c’è il confronto tra gli artisti e tra le ‘maniere’, con un riferimento ampio alle opere e alle vicende biografiche dei protagonisti presi in esame. Proprio sulla base delle Vite sono nate però numerose leggende, storie ‘non proprio esatte’ cucite abilmente sulla pelle degli artisti, storie che hanno assunto nel tempo l’aspetto perentorio di un ipse dixit.

Un altro libro sacro dell’arte, più recente del testo vasariano, è il volume La letteratura artistica. Manuale delle fonti della storia dell’arte moderna scritto da Julius Schlosser Magnino (Vienna 1924 – Firenze 1935). Lo storico austriaco, esponente della scuola viennese di storia dell’arte, esorta i lettori di Vasari a non prendere alla lettera tutto ciò che viene asserito dall’autorevole fonte aretina…

Le parole di Schlosser si sono rivelate foriere di una verità che, nel tempo, gli storici dell’arte ed i critici, hanno potuto constatare:

‘Specialmente là dove lo guidano moventi personali o campanilistici, il Vasari lascia molto volentieri le briglie sciolte alla sua fantasia. […] La base fondamentale di ogni critica del Vasari deve sempre essere questa: accettare come interamente degno di fede solo quello che si può con sicurezza stabilire o per mezzo di altre testimonianze severamente documentate, o sulla base della più coscienziosa critica stilistica’ (Schlosser Magnino Julius, La letteratura artistica, Firenze 2003, pp. 312-313).

Non essendo questa la sede per uno studio ben articolato sulle (numerosissime) fonti vasariane (lettere, manoscritti, guide artistiche, biografie, descrizioni, libretti, racconti orali, ricordi personali), e non potendo quindi risolvere il problema della buona fede dell’autore (cosa impossibile da stabilire, comunque), occorre semplicemente tener presente l’ammonizione dello storico mitteleuropeo.

Senza dubbio c’è in Vasari quella buona dose di ardore toscano (anzi, aretino), verso cui un intellettuale cattedratico austriaco, vissuto a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, non può che prendere le distanze… Ma effettivamente alcuni episodi narrati dal poliedrico Vasari, riportano notizie e fatti assolutamente falsi.

L’ episodio di cui vado a parlare, pur con tutta il mia fedeltà ideale al buon Vasari, dà ragione a Schlosser. Infatti, oltre ad essere una vera e propria falsità, il racconto che riporto descrive un atto gravissimo che ha contribuito a far nascere, come conseguenza logica, una calunnia orribile intorno alla persona dello sventurato artista menzionato come l’artefice dell’assassinio (mai avvenuto) di Domenico Veneziano.

Nella Vita d’Andrea dal Castagno di Mugello e di Domenico Viniziano, pittori (non a caso inseriti a braccetto nella stessa biografia), Vasari accusa il pittore Andrea del Castagno di aver ucciso Domenico Veneziano. Trascrivo i passaggi esatti del racconto vasariano:

‘Quanto sia biasimevole in una persona eccellente il vizio della invidia, che in nessuno doverebbe ritrovarsi, e quanto scelerata et orribil cosa il cercare sotto spezie d’una simulata amicizia, spegnere in altri, non solamente la fama e la gloria, ma la vita stessa, non credo io certamente che ben sia possibile esprimersi con parole, vincendo la sceleratezza del fatto ogni virtù e forza di lingua, ancora che eloquente. Per il che, senza altrimenti distendermi in questo discorso, dirò solo che ne’ sì fatti alberga spirito, non dirò inumano e fero, ma crudele in tutto e diabolico, tanto lontano da ogni virtù, che non solamente non sono più uomini, ma né animali ancora, né degni di vivere. Conciò sia che quanto la emulazione e la concorrenza, che virtuosamente operando cerca vincere e soverchiare i da più di sé per acquistarsi gloria et onore, è cosa lodevole e da essere tenuta in pregio come necessaria ed utile al mondo, tanto per l’opposito, e molto più, merita biasimo e vituperio la sceleratissima invidia, che non sopportando onore o pregio in altrui si dispone a privar di vita chi ella non può spogliare de la gloria, come fece lo sciaurato Andrea dal Castagno, la pittura e disegno del quale fu per il vero eccellente e grande, ma molto maggiore il rancore e la invidia che e’ portava agli altri pittori, di maniera che con le tenebre del peccato sotterrò e nascose lo splendor della sua virtù. […] Avendo dunque Andrea condotta questa opera a bonissimo termine, accecato dall’invidia per le lodi che alla virtù di Domenico udiva dare, si deliberò levarselo d’attorno, e dopo aver pensato molte vie, una ne mise in essecuzione in questo modo; una sera di state, sì come era solito, tolto Domenico il liuto, uscì di S. Maria Nuova, lasciando Andrea nella sua camera a disegnare, non avendo egli voluto accettar l’invito d’andarseco a spasso, con mostrare d’avere a fare certi disegni d’importanza. Andato dunque Domenico da sé solo a’ suoi piaceri, Andrea, sconosciuto, si mise ad aspettarlo dopo un canto, et arrivando a lui Domenico nel tornarsene a casa, gli sfondò con certi piombi il liuto e lo stomaco in un medesimo tempo; ma non parendogli d’averlo anco acconcio a suo modo, con i medesimi lo percosse in su la testa malamente, poi lasciatolo in terra se ne tornò in S. Maria Nuova alla sua stanza e, socchiuso l’uscio, si rimase a disegnare in quel modo che da Domenico era stato lasciato. Intanto essendo stato sentito il rumore, erano corsi i servigiali, intesa la cosa, a chiamare e dar la mala nuova allo stesso Andrea micidiale e traditore; il qual, corso dove erano gl’altri intorno a Domenico non si poteva consolare, né restar di dir: “Oimè fratel mio, oimè fratel mio”. Finalmente Domenico gli spirò nelle braccia, né si seppe, per diligenza che fusse fatta, chi morto l’avesse; e se Andrea, venendo a morte, non l’avesse nella confessione manifestato, non si saprebbe anco. […] Visse Andrea onoratamente, e perché spendeva assai e particolarmente in vestire et in stare onorevolmente in casa, lasciò poche facultà quando d’anni 71 passò ad altra vita. Ma perché si riseppe, poco dopo la morte sua, l’impietà adoperata verso Domenico che tanto l’amava, fu con odiose essequie sepolto in S. Maria Nuova, dove similmente era stato sotterrato l’infelice Domenico d’anni cinquantasei. E l’opera sua cominciata in S. Maria Nuova rimase imperfetta e non finita del tutto’ (Vasari, Le Vite, 1568).

La prima cosa da dire è che c’è un particolare che, evidentemente, all’epoca della stesura delle Vite, non era ancora conosciuto in maniera esatta, almeno non da Vasari: Andrea del Castagno (nato nel 1421 sulle pendici del monte Falterona) morì – forse di peste – il 19 agosto 1457, quindi a soli 36 anni e non a 71. Domenico Veneziano morì invece il 15 maggio 1461, cioè quattro anni dopo il suo presunto assassino… Il campo viene così subito sgomberato da ogni minimo, impercettibile dubbio riguardo alla possibilità che Vasari abbia raccontato un episodio veritiero.

Allora come può essere nata un’accusa tanto grave nei confronti del povero Andrea del Castagno? Sicuramente, almeno in questo caso, non può certo trattarsi di (eccessiva) partigianeria o malcelato campanilismo da parte di Vasari, dal momento che Andrea del Castagno era fiorentino e Domenico Veneziano, veneziano… Giorgio Vasari nacque nel 1511, la sua accusa verso Andrea del Castagno, probabilmente, fu dettata da una cattiva interpretazione dei dati anagrafici inerenti ad un episodio (reale) di omicidio accaduto nel 1448, episodio in cui i due protagonisti (due pittori), si chiamavano Andrea e Domenico.

Certo, si tratterebbe di una giustificazione piuttosto debole. L’incertezza riguardo al motivo per cui Vasari possa aver dichiarato una cosa tanto ignobile, ovviamente rimane viva. Il fatto che sia stato descritto in maniera così dettagliata (come si può leggere dall’estratto che ho riportato sopra), un episodio mai accaduto, ci aiuta a capire che la diffusione di notizie false – abominevole tendenza giornalistica e mediatica quotidiana che noi associamo all’epoca contemporanea – in realtà rappresenti semplicemente un costume sociale umano riscontrabile in ogni epoca.

Certo, può destare grande sconcerto pensare al fatto che Giorgio Vasari, l’ideatore di quella straordinaria formula architettonica ordinata e logica che è il palazzo degli Uffizi a Firenze (vd. https://www.labellarivoluzione.it/2020/11/25/dalla-burocrazia-allarte-gli-uffizi/), sia stato ‘anche’ capace di diffondere una notizia tanto grave senza aver prima verificato con ogni premura l’attendibilità di tali congetture.

Anche il presunto movente narrato da Vasari, cioè l’invidia che Andrea del Castagno avrebbe provato sia per la bravura artistica del proprio ‘rivale’ che per la conoscenza della tecnica della pittura a olio da parte di Domenico Veneziano, risulta infondato. Infondato per due motivi. Primo perché non è mai stato riscontrato che Domenico Veneziano abbia portato questa tecnica pittorica nordica a Firenze, poi perché non c’è mai stata, in realtà, una vera e propria introduzione di questo metodo in Italia. Mi spiego meglio, già nell’antichità classica si dava notizia della pratica della pittura ad olio, una procedura artistica in cui i pigmenti (terre, minerali, elementi organici vegetali o animali), venivano fissati grazie all’uso di oli; e nel Trecento Cennino Cennini (Libro dell’Arte, capitoli XCII, XCIII, XCIV), rivela in dettaglio quali siano i trucchi per ottenere una perfetta pittura ad olio [1].

Questa orribile accusa avrà probabilmente gettato un’ombra oscura sulla figura del pittore Andrea del Castagno, ridimensionandone magari perfino la portata artistica; immagino che non tutti i lettori delle Vite, a partire dalla loro pubblicazione, si saranno premurati di controllare con esattezza le date di morte dei due protagonisti in questione, contribuendo così a far nascere, nei confronti delle parole di Vasari, quel valore di ipse dixit di cui ho fatto cenno all’inizio del mio scritto.

Un inciso. In un tale sconfinato equivoco c’è, comunque, un dato che potrebbe favorire la nascita di un dibattito molto stimolante. Vasari parla di Andrea del Castagno come di una ‘persona eccellente‘, benchè di spitito ‘crudele’ e ‘diabolico’. Viene così posta l’attenzione proprio sul fatto che sia inconcepibile che un artista di quel calibro, possa essere stato divorato, mosso irrimediabilmente dal morso violento ed incontrollabile dell’invidia. Trovo che questa analisi, da cogliere tra le righe della narrazione, metta l’accento su una questione verso la quale, ognuno di noi, probabilmente, si è trovato a riflettere almeno una volta nella vita. Ovvero, che tipo di modalità critica occorre mettere in atto nei confronti di un artista quando questo si riveli un essere umano, quanto meno, ‘discutibile’? Discutibile secondo i parmametri etici e/o morali unanimamente riconosciuti e stabiliti come valori assoluti ed imprescindibili che ordinano e regolano le umane società. Detto in maniera più chiara, il genio, il talento, l’eccellenza creativa, artistica rappresentano un binario parallelo rispetto a quello del carattere, della personalità, delle attitudini o delle scelte che caratterizzano un individuo? Quell’uomo è un omicida MA è un grande artista. Oppure, quell’uomo è un grande artista MA è un omicida. In che modo percepiamo realmente questa dicotomia? Utilizzo la formula dell’omicidio, attinente al racconto che sto facendo, ma potrei spaziare facendo riferimento a reati o aberrazioni di qualunque altro tipo. Si tratta di un aspetto sociologico molto attraente, capace di mettere in luce l’infinito ventaglio di possibilità che ogni essere umano ‘è’ ed ‘ha’ dentro di sè.

Torniamo alla storia dell’arte. Domenico Veneziano (Venezia, 1405-10 – Firenze, 1461), fu un pittore straordinariamente imbevuto di luce veneta e di quell’esattezza cromatica e formale che Leon Battista Alberti (1404-1472) aveva teorizzato – ed auspicato – nel De pictura, uno dei trattati simbolo del Rinascimento fiorentino pubblicato nel 1435.

Su questa luce spaziosa e potente formulata da Domenico Veneziano, si plasma, iniziando proprio come suo aiutante a Firenze, Piero della Francesca (1416-1492), che nella Leggenda della Vera Croce  in San Francesco ad Arezzo, mostra una smisurata capacità descrittiva paesaggistica, quasi fotografica. La stessa attenzione che ritroviamo in Domenico Veneziano, che divenne una sorta di filtro, a Firenze, per la pittura fiamminga; una pittura ricca di modulazioni luminose, inserti naturalistici e dettagli della quotidianità nordica resi con un’esattezza rigorosa ed avvolgente.

Un confronto immediato può essere fatto accostando l’affresco aretino raffigurante la Morte di Adamo [Fig. 2] con l’Adorazione dei Magi di Domenico Venziano [Fig. 3] [2].

Fig. 2, Piero della Francesca, La leggenda della Vera Croce, Morte di Adamo, 1452 – 1466, Arezzo, Basilica di San Francesco

Fig. 3, Domenico Veneziano, Adorazione dei Magi, 1439 ca., Berlino, Gemäldegalerie

Nella lunetta con la Morte di Adamo, il paesaggio e gli elementi naturali sono sapientemente descritti e disposti, il grande albero, putroppo mortificato dalla grande macchia chiara di scialbatura, nella sua interezza avrà avuto sicuramente un impatto visivo grandioso. Ma l’esito finale della rappresentazione, ovviamente, mette in luce la grande distanza stilistica esistente tra Piero della Francesca e Domenico Veneziano. In Piero della Francesca c’è un raffinato minimalismo espressivo, una misura che rende le sue opere elegantissime ed estremamente contemporanee. Nella sua pittura tutto viene proposto e disposto secondo un ordine rigoroso di equlibrio e di ariosità anche nelle scene più affollate, come nella Battaglia di Eraclio e Cosroe nello stesso ciclo aretino. In Piero della Francesca gli accostamenti cromatici e la disposizione dei volumi, poi, sono così moderni che in qualche modo sembrano anticipare (di cinque secoli), le simmetrie, le proporzioni e l’esattezza coloristica, morbida e polverosa, di Giorgio Morandi (1890-1964). Credo che un piccolo gioco di accostamenti visuali possa rendere bene l’idea di ciò che intendo dire [Figg. 4-7].

Domenico Veneziano invece gioca ancora sugli effetti (sensazionali, senza dubbio) legati alla scia luminosa lasciata dal passaggio di Gentile da Fabriano (1370-1427) a Firenze; artista raffinato, signorile che nel 1423 lascia in città quel trionfo fiabesco d’oro e di tessuti pregiati che è l’Adorazione dei Magi degli Uffizi [Fig. 8].

Fig. 8, Gentile da Fabriano, Adorazione dei Magi, 1423, Firenze, Uffizi

Nel tondo con l’ Adorazione di Magi di Domenico Veneziano, in primo piano ci sono i Magi ed un ampio seguito di personaggi a cavallo finemente abbigliati; un possente cavallo bianco mostra, impudentemente, l’acconciatura sofisticata della propria coda, creando una ‘macchia bianca’ che va a spezzare la continuità dei colori e delle fantasie delle stoffe; i tre sapienti giunti dall’Oriente sono intenti a porgere omaggi e doni al Bambino appena nato, completamente nudo, sorretto da una giovane Madonna coi capelli color grano. Al fianco della Madonna, san Giuseppe con l’espressione pensosa e lo sguardo umile, avvolto in un luminoso mantello ocra [Figg. 9, 10].

Fig. 9, Domenico Veneziano, Adorazione dei Magi (part.), 1439 ca., Berlino, Gemäldegalerie

Fig. 10, Domenico Veneziano, Adorazione dei Magi (part.), 1439 ca., Berlino, Gemäldegalerie

In secondo piano, un paesaggio del contado, una fetta di campagna naturale ed antropizzata. Greggi al pascolo, alberi, fiori di campo, cespugli bassi, montagne, colline che si perdono all’ orizzonte, campi coltivati, torri, fortificazioni, strade, uno specchio d’acqua ai piedi delle montagne ed un inserimento ornitologico bellissimo nel lembo di cielo azzurrino: due falchi attaccano un airone che pare sul punto di cadere a terra esanime [Fig. 11].

Fig. 11, Domenico Veneziano, Adorazione dei Magi (part.), 1439 ca., Berlino, Gemäldegalerie

L’airone può essere interpretato come simbolo di Cristo; a causa della propria natura solitaria, nel Medioevo l’airone veniva infatti associato all’immagine di Cristo abbandonato nell’Orto degli Ulivi. Oppure, l’attacco dei rapaci all’airone può rappresentare la futura morte di Cristo. Inoltre, l’opera fu commissionata a Domenico Veneziano da Piero de’ Medici, raffigurato con un elegantissimo abito plissé bianco e nero e col falcone sul braccio, in mezzo al gruppo di uomini in primo piano [Fig. 12]. E proprio il falcone è la divisa (chiamata anche insegna o impresa) del committente dell’opera che, nel tondo, è l’unico con lo sguardo rivolto allo spettatore.

Fig. 12, Domenico Veneziano, Adorazione dei Magi (part.), 1439 ca., Berlino, Gemäldegalerie

Nella stalla – un piccolo ricovero per animali – alle spalle della Sacra Famiglia, riposano, fedeli alla tradizione, il bue e l’asino; al di fuori ci sono due cammelli che contribuiscono a dare una nota esotica all’intera scena, scena già straordinariamente suggestiva per il trionfo degli abiti resi in maniera mirabile. Il protagonista incontrastato, in quanto ad esotismo, è però il pavone, elegantemente appollaiato sul tetto di cannicci e coppi della capanna. Distante ed imperturbabile, il pavone simboleggia la vita eterna e la sua presenza crea un bellissimo pendant (sia tematico che simbolico) con il riferimeto ornitologico descritto sopra.

Questa rappresentazione è un caleidoscopio di particolari interessanti e di cromatismi luminosi, un repertorio perfetto per chi volesse studiare la moda aristocratica maschile fiorentina del XV secolo. Semplicemente spettacolare l’abito a sbuffo del personaggio coi capelli biondi e cotonati (forse un paggio di corte), che sta di spalle a mostrare motivi decorativi che lo rendono simile al pavone [Figg. 13, 14].

Figg. 13, 14, Domenico Veneziano, Adorazione dei Magi (part.), 1439 ca., Berlino, Gemäldegalerie

Pastori simili a spettri che incedono ad adorare il Bambino, una processione di gente – in lontananza – si avvicina al sacro evento, un impiccato sullo sfondo lontano, penzola a testimonianza della caducità del mondo; nella parte bassa del tondo due levrieri a riposo e ancora la lotta di un falchetto con un airone, un airone morto adagiato a terra ed un altro, sulla destra, a dare ulteriore equilibrio alla straordinaria composizione [Figg. 15-19].

Figg. 15-19, Domenico Veneziano, Adorazione dei Magi (part.), 1439 ca., Berlino, Gemäldegalerie

In un manuale di Storia dell’arte, in una scheda in cui vengono messe a confronto tre diverse Adorazioni dei Magi, c’è una nota descrittiva che ho sempre trovato molto divertente. Nel punto in cui si parla dell’opera di Domenico Veneziano c’è scritto questo:

[…] la Vergine stessa, il capo coperto da un alto turbante, è al pari di loro, una dama aristocratica […] (Bertelli C., Briganti G., Giuliano A., Storia dell’arte italiana, vol. 3, Electa-Mondadori, 1988, p. 271).

Effettivamente ad un primo sguardo la cosa può apparire corretta [Fig. 20].

Fig. 20, Domenico Veneziano, Adorazione dei Magi, 1439 ca., Berlino, Gemäldegalerie

A colpo d’occhio sembra davvero che un copricapo di foggia orientale color giallo ocra, orni la delicata testa della Madonna. Ma non è così. In realtà si tratta semplicemente della spalla sinistra di san Giuseppe, aureolato anch’esso con un sottile disco dorato proprio come la sua sposa ed il Bambino [Fig. 21].

Fig. 20, Domenico Veneziano, Adorazione dei Magi (part.), 1439 ca., Berlino, Gemäldegalerie

Quest’ultimo piccolo appunto, serve soltanto a capire che le opere d’arte sono come giganteschi libri pieni di cose interessanti da leggere e rileggere.

Ogni opera d’arte rappresenta un mistero fantastico, un mondo magico vicino eppure lontanissimo, un enigma impossibile da interpretare e sciogliere completamente. Anche questo aspetto rende l’arte uno dei miei cibi preferiti.

Lucia Borri


NOTE

[1] Capitolo XCII. Come si fa l’olio buono e perfetto, cotto al sole. Quando tu hai fatto quest’olio (il quale ancora si cuoce per un altro modo, ed è più perfetto da colorire; ma per mordenti vuol essere pur di fuoco, cioè cotto), abbi il tuo olio di semenza di lino; e di state mettilo in un catino di bronzo o di rame, o in bacino. E quando è il sole lione, tiello al sole; il quale, se vel tieni tanto che torni per mezzo, è perfettissimo da colorire. E sappi che a Firenze l’ho trovato il migliore e ’l più gentile che possa essere.

Capitolo XCIII. Sì come dèi triare i colori ad olio, e adoperarli in muro. Ritorna a ritriare, o vero macinare, di colore in colore, come facesti a lavorare in fresco; salvo dove triavi con acqua, tria ora con questo olio. E quando li hai triati, cioè d’ogni colore (chè ciascheduno colore riceve l’olio, salvo bianco sangiovanni), abbi vasellini dove mettere i detti colori, di piombo o di stagno. E se non ne truovi, togli degl’invetriati, e mettivi dentro i detti colori macinati: e pongli in una cassetta, che stieno nettamente. Poi con pennelli di vaio, quando vuoi fare un vestire di tre ragioni, sì come t’ho detto, compartiscili e mettili ne’ luoghi loro; commettendo bene l’un colore con l’altro, ben sodetti i colori. Poi sta’ alcun dì, e ritorna, e vedi come son coverti, e ricampeggia come fa mistieri. E così fa’ dello incarnare, e di fare ogni lavorío che vuoi fare: e così montagne, arbori, ed ogni altro lavoro. Poi abbia una piastra di stagno o di piombo, che sia alta d’intorno un dito, sì come sta una lucerna; e tiella mezza d’olio, e quivi tieni i tuo’ pennelli in riposo, che non si secchino.

Capitolo XCIV. Come dèi lavorare ad olio in ferro, in tavola, in pietra. E per lo simile in ferro lavora, e ogni pietra, ogni tavola, incollando sempre prima; e così in vetro, o dove vuoi lavorare.

[2] ‘Forti sono ancora le impressioni della lezione avuta da Domenico Veneziano, non solo nella sua resa della luce, ma anche nel paesaggio, di stampo descrittivo’ (Fornasari Liletta, in Arte in Terra d’Arezzo. Il Quattrocento. Edifir, 2008, p. 140)

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