Ivan Theimer. La natura, l’uomo e un omaggio a Piero della Francesca

“Il sogno di Theimer“, 24 giugno 2016 – 6 gennaio 2017,  Fortezza Medicea, Arezzo

A volte capita di vivere un sogno. Da svegli. Ad Arezzo c’è una mostra incredibilmente bella, che ha trovato dimora in un luogo perfetto. Si tratta del racconto di un viaggiatore attento che sa formulare, con la stessa intensità espressiva, sculture in bronzo gigantesche e appunti acquerellati leggeri come ali di farfalla.

Questo viaggiatore è il ceco Ivan Theimer (Olomouc, 18 settembre 1944), un artista che conosce perfettamente pesi e leggerezze.

Vittorio Sgarbi, curatore dell’esposizione, ha intuito in maniera illuminante di dover collocare le sculture all’interno della Fortezza Medicea di Arezzo finalmente rifiorita in abiti splendidi.

Obelischi che danno il capogiro svettano veloci verso il cielo. Archi trionfali, fregi e bassorilievi provenienti da un mondo ormai lontano, voci classiche sempre intonate. Echi orientali rubati in maniera essenziale. L’uso antico di dipingere il bronzo. Rielaborazioni di personaggi mitologici e biblici: Ercole mentre compie la sua tredicesima fatica sollevando un pesantissimo obelisco egizio, Tobiolo col pesce ‘prêt-à-porter’, Medusa terrificante dalla chioma di serpenti sinuosi magnificamente vivi, Arione e il delfino, gruppo scultoreo delicato e dirompente. Il delfino ha la superficie interamente ricoperta da una mappa fatta di segni che sembrano scarificazioni tribali, simboli che ricordano il linguaggio dell’Egitto faraonico e che fanno pensare anche ad una lingua ‘nuova’, sconosciuta, proveniente da un altrove che deve esserci da qualche parte,  nello Spazio.

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Serpenti, ramarri, chiocciole che strisciano, tartarughe giganti delle Galapagos che, come madri della terra e simbolo della continuità della linea del tempo, sorreggono obelischi o angeli che cadono – confusi e smarriti – aggrappandosi ad un’intricata selva bronzea che  pare non dar loro alcun riparo.

Si sente  lo spirito della natura che si muove, muore e rinasce. Sembra di essere in mezzo a cose che stanno ferme ma che, in realtà, sono vivissime…Theimer rende semplice la cosa più difficile di tutte: la sintesi. Egli ‘compone’ pezzetti di mondi geograficamente e temporalmente diversi, distanti. Il simbolismo egiziano, la Grecia assolata che emana bellezza, il bronzo lucente degli Etruschi, il linguaggio universale di Roma, il respiro ampio del Rinascimento, le esasperazioni della Maniera fiorentina, il Classicismo vestito con gli abiti rinnovati del Neoclassicismo, lo stato di quiete sospesa dei templi buddisti. Le forme, e i contenuti, sono modulati ed interpretati in modo armonioso. Si capisce immediatamente che non si tratta di puri esperimenti, di virtuosismi tecnici di elevatissimo livello, tutto è stato studiato ed amato profondamente. Si vede, si sente. Poi,  pare che questo ‘tutto’ abbia attraversato una zona d’ombra vaga e leggerissima che non ha oscurato affatto l’idea chiara e consolante delle ‘rinascite’. Anzi, le ha regalato maggior verità. Il verticalismo che quasi toglie il respiro. Una certa insistenza grafica che stempera il chiarore abbagliante delle formule propriamente classiche, i serpenti intrecciati, gli elementi decorativi che sembrano ‘tatuati’, quindi pieni di mistero… Tutto questo rappresenta il vero, la parte emozionale dell’essere umano, il senso profondissimo e reale dell’esistenza. La vegetazione aggrovigliata delle selve, non dona alcun senso di sollievo emotivo immediato. Ma è la rappresentazione più persuasiva della vita.

C’è poi la tenerezza delicata delle testine dei bambini, con i loro cappelli a forma di ‘barchetta fatta col giornale’, inserto intensamente poetico. Ancora, piccole figurine che calzano delle tartarughe come se fossero dei sandali, formula che mi ha regalato la ‘visione’ di un mondo futuristico ‘post – velocità convulsa’, rinato per virtù della lentezza. Immagine splendente.

La nota da amare di più, è l’uso dei copricapo alla bizantina indossati da alcuni soggetti. Si tratta di forme geometriche pulitissime ed essenziali, un’assonanza puntuale con Arezzo.

Il richiamo è immediato: le Storie della Vera Croce (1452-1466), narrate da Piero della Francesca nella basilica di San Francesco, a pochi passi dalla Fortezza; nel brano conclusivo degli affreschi della basilica c’è L’Esaltazione della Croce, che viene riportata dall’imperatore Eraclio a Gerusalemme dopo aver sconfitto Cosroe; Eraclio, con il suo seguito di figure colorate e lucenti, sorregge la Croce accolto da un gruppo di uomini inginocchiati e silenziosi che stanno in adorazione fuori dalle mura della città.[1]

In questo repertorio figurativo ricchissimo, si notano subito i copricapo orientali. Forse il più ‘celebre’ è quello indossato dal personaggio barbuto avvolto nel morbido mantello bianco; l’uomo è bloccato nell’atto di togliersi il grande cappello svasato di color avorio che spicca sulla tonalità rosso mattone delle mura cittadine. In realtà, questo cappello originariamente era verde: il pigmento utilizzato, evidentemente, si è scolorito per ossidazione all’aria.

Theimer ha posto un piccolo busto di bambino col grande cappello in testa, davanti alla basilica di San Francesco, per testimoniare questo omaggio estetico raffinatissimo.

Nella Fortezza aretina finalmente riportata alla vita, si anima il sogno profondo di Ivan Theimer, un catalogo formidabile di suggestioni ancestrali, classiche e futuristiche.

Trovo che i rettili, i bassorilievi insistenti e il mistero delle selve impenetrabili, vivano benissimo nell’ambiente sotterraneo della Fortezza, silenziosissimo e profumato di umidità.

 Lucia Borri, settembte 2016

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Ringrazio l’amico Maurizio Pichi per la Fotografia

Note

1. Il 6 luglio 1439, a Firenze veniva ufficialmente proclamata la riunificazione della cristianità. Il Concilio, convocato da papa Martino V nel 1431, aveva finalmente riunito le Chiese d’Oriente e d’Occidente. Il Concilio si aprì a Basilea nel 1437 ma nel 1438, per volontà di papa Eugenio IV, si spostò a Ferrara che però fu colpita dalla peste. Da lì, allora, passò a Firenze, e in quell’occasione gli artisti e gli intellettuali, ammirarono i costumi, il fasto, l’eleganza dei cortei che erano venuti in Italia al seguito del Patriarca e dell’Imperatore d’Oriente. Questo scenario esotico, raffinato e abbagliante, i profumi e i colori, le stoffe preziose e lucenti, gli accessori dalla foggia insolita, divennero, per gli artisti, suggestioni estetiche da dover raccontare e riformulare alla luce del proprio gusto, della propria sensibilità. Da questo repertorio iconografico inusuale, anche Piero della Francesca riuscì a trarre spunti formali che  riscontriamo puntuali nel  ciclo La Leggenda della Vera Croce, capolavoro assoluto dipinto tra il 1452 e il 1466.

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