Durante il Quattrocento comincia a farsi strada un importante cambiamento culturale e sociale: l’artista inizia ad essere affrancato da secoli di storia in cui l’arte era stata considerata puro esercizio meccanico. La prassi artistica assume così un valore nuovo, caricandosi finalmente anche di contenuti intellettuali e non soltanto pragmatici.
Nel corso del Cinquecento, grazie a questa visione che ‘riabilita’ l’arte regalandole un peso ed un significato nuovi, nasce addirittura una vera e propria disputa teorica, nota come IL PARAGONE DELLE ARTI, in cui gli artisti e gli intellettuali dell’epoca tentano di stabilire se esista un’arte superiore a tutte le altre (vd. https://www.labellarivoluzione.it/2020/04/05/162/); l’umanista Benedetto Varchi (1503-1565), con una trovata a dir poco geniale, chiede ai più grandi artisti del momento di esprimere, per lettera, i loro pareri sulla questione; e tutte queste riflessioni messe per scritto sono diventate, ovviamente, una parte fondamentale ed interessantissima della letteratura artistica, cioè dell’insieme delle fonti scritte inerenti alla storia dell’arte (Fig. 1).
Fig. 1, Guercino, Allegoria della pittura e scultura, 1637, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma
Torniamo al ruolo degli artisti nella società. In realtà, già alla fine del Trecento, l’immagine dell’artista esercita un grande fascino sul pubblico: egli viene recepito come un individuo anticonformista, stravagante ed estroso; è letto come un soggetto malinconico, ‘saturnino’, imprevedibile, poco incline ad uno stile di vita ritenuto ‘normale’ secondo il senso comune.
L’artista acquisisce lentamente anche dei connotati che lo avvicinano molto alla figura dell’intellettuale. I pittori, in modo particolare, godono di questa nuova considerazione sociale dal momento che il loro lavoro sembra presupporre un enorme impegno intellettivo anziché fisico, come invece accade nel caso degli scultori: ‘la scultura non è scienza ma arte meccanicissima, perché genera sudore e fatica corporale al suo operatore’ (Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura, vd. https://www.labellarivoluzione.it/2020/04/05/162/).
‘Quali furono le condizioni di vita di un pittore intorno all’anno 1400? Simili, possiamo affermarlo, a quelle di un artigiano qualsiasi. Eppure i maestri fiorentini dovettero constatare con soddisfazione un sensibile aumento del prestigio del loro mestiere: era infatti la pittura l’unica fra le attività manuali che poteva aspirare a essere ammessa al circolo esclusivo delle ‘artes liberales’ (Boskovits Mikòls, Pittura fiorentina alla vigilia del Rinascimento: 1370-1400, Firenze, 1975, p. 160)
Le arti liberali, fin dall’antichità, erano le discipline intellettuali a cui potevano dedicarsi gli uomini liberi, contrapposte alle artes serviles che erano invece le attività proprie degli schiavi: attività, queste ultime, in cui la fatica fisica non concedeva spazio alle speculazioni teoriche.
Durante il Medioevo le arti liberali, compendio del sapere letterario e scientifico, erano suddivise in due gruppi: il Trivio, comprendente la Grammatica, la Retorica e la Dialettica ed il Quadrivio, di cui facevano invece parte l’Aritmetica, la Geometria, la Musica e l’Astronomia.
‘In verità si trattò solo dell’inizio di un processo destinato a prolungarsi fino al XVIII secolo; rimane un fatto tuttavia che negli ambienti intellettuali […] era uso già in questo momento eguagliare i maggiori pittori ai maestri delle arti liberali […] Che il prestigio del mestiere continuasse a salire, era dovuto in parte all’attenzione rivoltagli in ambienti letterari. Le stesse persone che diffondevano notizie e commenti relativi all’arte nel mondo greco-romano, cercavano di seguire l’esempio degli autori classici elogiando le opere di maestri contemporanei. Così Boccaccio in diversi scritti rese omaggio alle doti eccezionali di Giotto, e il Petrarca paragonò con la poesia di Virgilio le miniature di Simone Martini, non esitando a dichiararlo superiore a uno Zeusi o un Prassitele’ (Boskovits Mikòls, Pittura fiorentina alla vigilia del Rinascimento:1370-1400, Firenze, 1975, pp.161-162)
Pensando a Giotto, Giovanni Boccaccio, Francesco Petrarca e Simone Martini, che nella stessa epoca elaborano i loro grandiosi, inarrivabili strumenti comunicativi artistici e letterari, mi vengono in mente le parole che Giorgio Vasari (1511-1574) riferisce al panorama artistico del Rinascimento fiorentino, ma che, evidentemente, possono calzare perfettamente anche per altri periodi storici tanto ricchi di personalità eccezionali.
‘È costume della natura, quando ella fa una persona molto eccellente in alcuna professione, molte volte non la far sola, ma in quel tempo medesimo, e vicino a quella, farne un’altra a sua concorrenza, a cagione che elle possino giovare l’uno all’altra nella virtù e nella emulazione. La qual cosa, oltra il singular giovamento di quegli stessi che in ciò concorrono, accende ancora oltra modo gli animi di chi viene dopo quella età a sforzarsi con ogni studio e con ogni industria, di pervenire a quello onore et a quella gloriosa reputazione, che ne’ passati tutto ’l giorno altamente sente lodare’ (Giorgio Vasari, Vita di Masaccio da San Giovanni di Valdarno Pittore, Le Vite, 1550, 1568)
Ma Giotto (1267-1337), in verità, è un caso davvero particolare, straordinario, pensando all’epoca in cui ha riformulato la pittura facendo riscoprire il peso ed i volumi delle cose e dell’uomo.
Giotto infatti riscosse così tanto favore già da parte dei suoi contemporanei, da essere citato nella Commedia di Dante (1265-1321); i due, sapevano bene di stimarsi molto, reciprocemente. Nel Canto XI del Purgatorio, ai versi 94-96, Dante rivolge infatti questa ‘dedica’ all’amico Giotto, ‘oscurando’ letteralmente la figura di Cimabue, maestro elegantissimo e raffinato di Giotto:
‘Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura’
Nella quinta novella della sesta giornata del Decameron, dedicata a Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto dipintore, Giovanni Boccaccio (1313-1375), tesse le lodi del pittore riferendone la capacità strabiliante di far apparir come ‘vero’ ciò che in realtà è dipinto:
‘[…] e l’altro, il cui nome fu Giotto, ebbe uno ingegno di tanta eccellenza, che niuna cosa dá la natura, madre di tutte le cose ed operatrice col continuo girar de’ cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sí simile a quella, che non simile, anzi piú tosto dessa paresse, intanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto […]’
Boccaccio celebra Giotto anche nelle terzine allegoriche dell’Amorosa visione, al capitolo IV, versi 13-18:
‘Humana man non credo che sospinta
Mai fosse a tanto ingegno, quanto in quella
Mostrava ogni figura lì distinta:
Eccetto se da Giotto, al qual la bella
Natura, parte di sè somigliante
Non occultò, nell’atto in che suggella’
E perfino nella Genealogia Deorum Gentilium (libro XIV , capitolo VI ), vera e propria enciclopedia mitologica scritta in latino, Boccaccio, parlando dei più grandi artisti dell’antichità (Fidia, Prassitele e Apelle), fa un aperto riferimento alla grandezza artistica di Giotto, “noster Ioctus, quo suo evo non fuit Apelles superior” (il nostro Giotto, al quale nell’età sua Apelle non fu superiore).
Un altro indiscutibile protagonista della scena artistica trecentesca italiana, è il pittore senese Simone Martini (1284-1344), un artista che riassume, in maniera perfetta, tutti i caratteri di quel mondo raffinato che è la cultura artigiana ed artistica senese. In lui i linearismi lirici ed eleganti del gotico sono arricchiti dalla potenza della lezione naturalistica di Giotto; ma anziché ricreare quello che era il risultato pittorico propriamente sintetico di Giotto, Simone Martini si orienta verso una descrizione più minuziosa e dettagliata della scena rappresentata, regalando alla sua opera un carattere squisitamente analitico. Inoltre Simone Martini ha la capacità di indagare nella zona più profonda dell’animo dei personaggi rappresentati e ci regala volti ed espressioni ricchi di sfumature psicologiche e caratteriali assolutamente attraenti.
Ecco alcuni capolavori del maestro senese, opere che hanno contribuito a formare, nella nostra mente ‘moderna’, l’idea del mondo medievale, affascinante e misterioso, coi suoi castelli, i santi, i miracoli, i nobili a cavallo e quella straordinaria concezione metafisica secondo la quale il mondo è emanazione di Dio e la luce, nelle sacre rappresentazioni, deve farsi portatrice di un così solenne messaggio (Figg. 2, 3, 4, 5, 6).
Fig. 2, Simone Martini, Guidoriccio da Fogliano, la presa del castello di Montemassi, 1328, Palazzo Pubblico di Siena
Fig. 3, Simone Martini, Maestà, 1312-1315, Palazzo Pubblico di Siena
Fig. 4, Simone Martini, Storie di San Martino, 1313-1318, Cappella di San Martino, Basilica inferiore di San Francesco d’Assisi, Assisi
Fig. 5, Simone Martini, Annunciazione tra i santi Ansano e Massima, 1333, Uffizi, Firenze
Fig. 6, Simone Martini, San Ludovico di Tolosa, 1317 ca., Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli
Nella seconda metà degli anni Trenta del XIV secolo, Simone Martini si trasferì ad Avignone presso la corte papale di Benedetto XII. Fu proprio in Francia che Simone conobbe il poeta aretino Francesco Petrarca (1304-1374). L’attenzione particolare che Petrarca rivolgeva all’arte del pittore senese, fu probabilmente agevolata dalla passione che egli nutriva nei confronti della miniatura, genere pittorico di cui i maestri senesi erano artefici indiscussi.
Effettivamente, ad un’analisi profonda, esistono diverse correlazioni estetiche tra la poesia e la miniatura; un sottile fil rouge congiunge perfettamente queste due espressioni artistiche create, modulate all’interno di microcosmi formali, quindi comunicativi, in cui si esplicitano la potenza di un concetto e la maestria tecnica, costruttiva, sia del poeta che del miniaturista.
Ad Avignone, Petrarca commissionò all’amico pittore un ritratto della donna amata, Laura. Questa richiesta speciale, intensa ed amichevole, mi porta alla mente un verso magnifico, pieno di luce che Petrarca dedicò al suo primo incontro con Laura, nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone: ‘Erano i capei d’oro a l’aura sparsi‘ (Canzoniere, sonetto XC). E pensando soltanto a questa manciata di parole, è come se riuscissimo a vederlo, quel ritratto.
Studiando la letteratura e l’arte, si aprono continuamente spiragli, varchi microscopici o giganteschi che rendono a dir poco abbaglianti certe idee, certe nozioni; nozioni che diventano immediatamente vive, che creano sinestesie infinite e sembrano sollevarsi dai libri, dagli schermi su cui le leggiamo e le studiamo.
Il ritratto di Laura eseguito da Simone Martini, oggi putroppo è perduto, ma Petrarca gli rivolse la sua dedica, citando l’operato dell’amico pittore, nei sonetti LXXVII e LXXVIII del Canzoniere.
L’immagine di Laura viene descritta come un’immagine che ha origini divine (‘Ma certo il mio Simon fu in paradiso’), ma il poeta esprime anche una malcelata invidia nei confronti di Pigmalione, che vide diventar viva la scultura che egli stesso aveva creato, mentre questo ritratto rimase un volto sublime, sulla carta…
‘Per mirar Policleto a prova fiso
con gli altri ch’ebber fama di quell’arte
mill’anni, non vedrian la minor parte
de la belta che m’ave il cor conquiso.
Ma certo il mio Simon fu in paradiso
(onde questa gentil donna si parte),
ivi la vide, et la ritrasse in carte
per far fede qua giu del suo bel viso.
L’opra fu ben di quelle che nel cielo
si ponno imaginar, non qui tra noi,
ove le membra fanno a l’alma velo.
Cortesia fe’; ne la potea far poi
che fu disceso a provar caldo et gielo,
et del mortal sentiron gli occchi suoi’
‘Quando giunse a Simon l’alto concetto
ch’a mio nome gli pose in man lo stile,
s’avesse dato a l’opera gentile
colla figura voce ed intellecto,
di sospir’ molti mi sgombrava il petto,
che ciò ch’altri à piú caro, a me fan vile:
però che ’n vista ella si mostra humile
promettendomi pace ne l’aspetto.
Ma poi ch’i’ vengo a ragionar co llei,
benignamente assai par che m’ascolte,
se risponder savesse a’ detti miei.
Pigmalïon, quanto lodar ti dêi
de l’imagine tua, se mille volte
n’avesti quel ch’i’ sol una vorrei’
Nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze è conservata una bellissima miniatura ottocentesca che fa parte del codice petrarchesco; questo disegno rappresenta Laura de Noves, attenta, delicata, colta in uno stato di pungente malinconia, le onde dorate della treccia le incorniciano il volto ed una cuffia finemente ricamata scandisce il volume femmineo della testa [Fig. 7].
Fig. 7, Ritratto di Laura, Biblioteca Medicea Laurenziana, Firenze
Nella Collezione dell’Ambrosiana a Milano, è conservata invece una perla di rara bellezza, che lega ancora Simone Martini a Petrarca. Si tratta del Frontespizio del Commento di Servio a Virgilio [Fig. 8], un manoscritto appartenuto a Petrarca, il quale vantava una biblioteca straordinariamente ricca. Nel manoscritto sono raccolte le tre opere virgiliane (Bucoliche, Georgiche ed Eneide), coadiuvate dal commento esegetico del grammatico e filologo latino Servio, che visse tra il IV ed il V secolo.
Fig. 8, Simone Martini, Allegoria virgiliana, Codice virgiliano, 1338, Biblioteca Ambrosiana, Milano
Il prezioso volume contiene inoltre ‘l’Achilleide di Stazio con accessus e commento, ff. 233v-248v, quattro odi di Orazio (II 3, II 10, II 16 e IV 7), con il commento dello pseudo Acrone e glosse di origine medievale, ff. 249r-250v, e due spiegazioni al Barbarismus, terzo libro dell’Ars maior di Elio Donato, ff. 25lr-269v.’ ( vd. https://www.ambrosiana.it/opere/il-virgilio-ambrosiano-di-francesco-petrarca/).
La composizione del codice, composto nel 1325 ad Avignone, fu curata completamente da Petrarca che vi annotò fittissimi pensieri e appunti inerenti anche agli avvenimenti della propria vita. E nel testo, sul verso del foglio di guardia, c’è un’intensa, lunga nota che racconta della morte dell’amata Laura; è struggente il passaggio in cui Petrarca scrive: “La sua luce fu sottratta a questa luce“… Riporto il testo in latino e la traduzione:
‘Laurea, propriis virtutibus illustris et meis longum celebrata carminibus, primum oculis meis apparuit sub primum adolescentie mee tempus, anni Domini m° iii c xxvii die vi° mensis Aprilis in ecclesia sancte Clare Avin. hora matutina; et in eadem civitate eodem mense Aprili eodem die sexto eadem hora prima, anno autem m° xlviij° ab hac luce lux illa subtracta est, cum ego forte tunc Verone essem, heu! fati mei nescius. Rumor autem infelix per literas Ludovici mei me Parme repperit, anno eodem mense Maio die xix° mane. Corpus illud castissimum atque pulcerrimum in loco Fratrum Minorem repositum est, ipso die mortis ad vesperam. Animam quidem eius, ut de Africano ait Seneca [Epistulae morales ad Lucilium LXXXVI], in celum, unde erat, rediisse persuadeo michi. Hec autem ad acerbam rei memoriam amara quadam dulcedine scribere visum est, hoc potissimum loco qui sepe sub oculis meis redit, ut scilicet nichil esse debere quod amplius mihi placeat in hac vita et, effracto maiori laqueo, tempus esse de Babilone fugiendi crebra horum inspectione ac fugacissime etatis estimatione commonear, quod, previa Dei gratia, facile erit preteriti temporis curas supervacuas spes inanes et inexpectatos exitus acriter ac viriliter cogitanti’
‘Laura, illustre per proprie virtù e a lungo celebrata nei miei carmi, apparì per la prima volta ai miei occhi nel primo tempo della mia adolescenza, nell’anno del Signore 1327, il 6 aprile, nella chiesa di Santa Chiara in Avignone, al mattutino; e in quella , apparve per la prima volta agli occhi miei in sul principio della mia adolescenza, l’anno 1327, il 6 d’aprile, nella chiesa di Santa Chiara d’Avignone, di buon mattino, e in quella stessa città, nello stesso mese di aprile, nella stessa ora prima, nel 1348, la sua luce fu sottratta a questa luce, mentre io mi trovavo per caso a Verona, ignaro, ahimè! del mio destino. La triste notizia mi raggiunse a Parma, tramite una lettera del mio Ludovico [cioè di Socrate], nello stesso anno, la mattina del 19 maggio. Quel corpo castissimo e bellissimo fu deposto nel cimitero dei frati minori, il giorno stesso della morte, verso sera. Sono convinto che la sua anima sia tornata in cielo, da dove era venuta, come Seneca dice dell’Africano. Mi è sembrato particolarmente opportuno scrivere questa nota, ad acerbo ricordo del fatto ma con una certa amara dolcezza, su questa pagina che spesso mi torna sotto gli occhi, affinché la frequente vista di queste parole e la considerazione del rapido fuggire del tempo mi ammonisca che non ci deve essere più nulla che mi piaccia in questa vita e che, ormai rotto il legame più forte, è tempo di fuggire da Babilonia; e ciò, per la preveggente grazia di Dio, mi sarà facile se rifletterò intensamente e virilmente sulle inutili cure sulle vane speranze e sugli eventi imprevisti del tempo passato’ (Pacca Vinicio, Petrarca, Biblioteca Universale Laterza, 2005, vd. https://books.google.it ).
Il frontespizio miniato da Simone Martini è un vero gioiello iconografico, tenue ma potentissimo. Rappresenta un paesaggio di campagna, minuziosamente indagato, sovrastato da un cielo blu oltremare; nella scena il commentatore latino Stazio, letteralmente ‘svela’ il poeta Virgilio tirando il lembo di un tendaggio leggerissimo: un velo quadrettato trasparente che scorre su un sottile palo orizzontale. Sullo sfondo, tre alberi azzurrini che sembrano usciti da una fiaba contemporanea; Virgilio, con un libro sulle ginocchia e una penna in mano, se ne sta beatamente seduto sotto un albero, a cogliere l’ispirazione poetica. La scena al centro fa riferimento all’Eneide: Servio infatti mostra Virgilio ad un personaggio che sostiene una lunga lancia, si tratta di Enea, l’eroe troiano che la tradizione lega alla nascita di Roma [Fig. 9].
Fig. 9, Simone Martini, Allegoria virgiliana (part.), Codice virgiliano, 1338, Biblioteca Ambrosiana, Milano
Nella parte bassa della miniatura, un contadino sta potando le viti, mentre un pastore è intento a mungere le pecore [Fig. 10]; si tratta di un richiamo iconografico alle altre due opere virgiliane, Le Georgiche e Le Bucoliche
Fig. 10, Simone Martini, Allegoria virgiliana (part.), Codice virgiliano, 1338, Biblioteca Ambrosiana, Milano
La scena superiore e quella inferiore sono suddivise idealmente da due cartigli. Due coppie di alucce angeliche dai colori delicatissimi sostengono le pergamene grazie a delle improbabili mani [Fig.11]; questo inserto fiabesco, magico, accompagnato dall’attenzione del pittore per le espressioni dei volti e per gli elementi botanici, ci fa capire bene quanta grazia egli sapesse trasferire nelle proprie opere…
Fig. 10, Simone Martini, Allegoria virgiliana (part.), Codice virgiliano, 1338, Biblioteca Ambrosiana, Milano
I due rotoli contengono ciascuno due versi; i due capolettera delle pergamene sono marcati con lo stesso azzurro brillante del cielo. Nel primo rotolo si legge ‘Itala praeclaros tellus alias alma poëtas / Sed tibi Graecorum dedit hic attingere metas‘ (Benevola terra italica, sei nutrice di illustri poeti; ma costui (Virgilio) ti concedette di toccare le mete dei Greci); nel secondo ‘Servius altiloqui retegens archana Maronis / Ut pateant ducibus pastoribus atque colonis‘ (Servio, disvelando i segreti del sublime Marone, li rese noti ai condottieri, ai pastori e ai contadini).
Sotto la miniatura, Petrarca fece apporre un’ulteriore nota all’amico senese:
‘Mantua Virgilium, qui talia carmine finxit / Sena tulit Symonem, digito qui talia pinxit‘ (Mantova generò Virgilio, che creò simili cose con la poesia; Siena Simone che le dipinse con la sua mano)
Il gesto che compie Servio nello svelare il poeta Virgilio, oltre ad essere estremamente efficace dal punto di vista simbolico, si dimostra anche particolarmente elegante, sottile, la tenda quasi impalpabile mossa in modo delicato rappresenta a mio avviso il fulcro dell’intera scena. L’elemento vitale, che armonizza la composizione, mettendo in stretta relazione forma e contenuto.
Lucia Borri