Il connubio tra valori etici ed estetici trova nell’arte un terreno molto fertile. L’uomo combatte da sempre contro un malessere profondissimo: melancholia, taedium vitae, accidia, spleen, rettorica, male di vivere, noia, in sostanza, quell’umor nero già identificato benissimo dalla medicina ippocratica (gr. mélanos, nero e cholé, bile). Tale opprimente stato di inquietudine deriva dalla constatazione dell’inconciliabilità fra desiderio di libertà e forze esterne che ne ostacolano la reale concretizzazione. La presa di coscienza di questo insanabile dissidio e, come logica conseguenza, l’accettazione incondizionata dei limiti innati, propri dell’essere umano e dell’umano vivere, rappresentano (forse) il solo, vero mezzo per poter perseguire e raggiungere quella parvenza di libertà a cui tanto aspiriamo: la persuasione rende liberi (suggerisco, a tal proposito, la lettura della tesi di laurea di Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica). In questo eterno panorama umano fatto di smarrimento, di frustrazione, di anelito al benessere dell’anima, finanche di desiderio di raggiungere la felicità, ecco che l’arte può essere considerata parte integrante della cura. Vediamo in che modo.
Nel tortuoso percorso introspettivo derivante dall’esortazione socratica (delfica, in realtà) che porta alla conoscenza di sé attraverso la formula γνῶθι σαυτόν (conosci te stesso), percorso soggettivo che deve necessariamente essere compiuto per potersi anche soltanto avvicinare ad una reale e ragionevole idea di consapevolezza/persuasione, l’arte può avere un ruolo davvero interessante, forse determinante, addirittura. L’arte infatti serve ad alleviare quel ‘peso opprimente che spesso l’uomo sente gravare nell’animo’ (parafrasando Lucrezio), essa può rappresentare una sorta di elevazione spirituale per l’essere umano e può perfino giungere ad esercitare una vera e propria funzione purificatrice; la catarsi (κάθαρσις), che Aristotele associava alla tragedia, considerata da lui la principale forma d’arte:
‘La tragedia è l’imitazione di un’azione seria e completa, avente una certa ampiezza di svolgimento, espressa in bella lingua, che, suscitando la pietà ed il terrore, giunge a placare questi due sentimenti, sublimandoli’ (Aristotele, Poetica)
In quello che viene vissuto come un vero e proprio conflitto tragico, che contorce le membra e avvilisce lo spirito umano, la contemplazione dell’arte (al di là di ogni mera, personale classifica cui ricondurre il valore intrinseco, specifico delle varie opere d’arte o delle arti stesse), serve a scongiurare le più profonde ed intime paure che ogni uomo, in modo affatto puerile, si porta dentro da sempre: l’uomo nasce accompagnato da paure ancestrali che ne denotano l’umana finitezza e lo caratterizzano quindi come creatura naturalmente limitata, contraddittoria, fragile, destinata ad un’inevitabile morte. La contemplazione estetica (che potrebbe perfino divenire estatica, per gli individui più inclini ad una visione di comunione assoluta con lo spirito del mondo), è da considerarsi come unica, possibile cura per alleviare i sintomi del profondissimo malessere umano che da sempre ha ispirato e mosso filosofi, poeti e scrittori. Ovviamente si tratta di una cura che non ha la facoltà di poter guarire l’uomo: soltanto la morte, nel suo più profondo valore escatologico, può avere un tale potere taumaturgico; la morte, definitiva liberazione da ogni umano malessere…
Questa sorta di rigenerazione individuale, che può attuarsi attraverso la contemplazione della bellezza dell’arte, è destinata a divenire poi collettiva, naturalmente. Il procedimento esatto dovrebbe essere questo: in un tale processo fisico e psicologico, lo spettatore dovrebbe riuscire a manifestare un interesse assoluto, quindi disinteressato, nei confronti della bellezza; questo porterebbe inevitabilmente ad acquisire uno stato di benessere facilmente assimilabile alla felicità (altro elemento chiave nella tortuosa ricerca umana). La scienza ha dimostrato che la bellezza è capace di attivare meccanismi che provocano reazioni ed emozioni positive in chi entri in contatto profondo con essa. Bene. Ma allora verso quale genere di bellezza bisogna rivolgere lo sguardo per ottenere dei benefici psicoemotivi? Dal momento che ciò che sto sostenendo è strettamente legato al concetto di bellezza ‘nell’arte’ (pur non volendo escludere, naturalmente, l’efficacia della bellezza di un tramonto sul mare o di una costellazione), basterà andare a ritroso nei secoli per scoprire che in ogni epoca è esistito un diverso modo di sentire l’arte e, forzando (neanche troppo) i termini, un diverso concetto di ‘bellezza nell’arte’. Mi soffermerò volentieri altrove sul concetto, espresso in maniera cristallina da Ernst Gombrich, secondo cui un soggetto non propriamente bello possa essere rappresentato in un’opera d’arte che, una volta finita, si riveli invece inequivocabilmente bella; mi pare che l’esempio portato dallo storico viennese si riferisse al ritratto, inclemente e straordinario, che Albrecht Dürer fece alla propria anziana madre. Ma di questo parlerò un’altra volta.
Torniamo alla bellezza nell’arte. L’idea dei Greci di una realtà idealizzata espressa – nell’arte come nella musica – grazie ad accordi e rapporti numerici codificati e razionali, evidentemente avrà prodotto opere sensibilmente diverse da quella strabiliante spremuta di Medioevo dipinta da Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena o dalle opere pittoriche realizzate negli anni successivi al Concilio di Trento, in cui un evidente valore cattolico controriformato doveva, necessariamente, avere la meglio sul valore delle proporzioni armoniche o dell’esattezza anatomica dei corpi… Oppure pensiamo alle presunte finalità magico-apotropaiche dei bisonti paleolitici della grotta di Altamira (divenuti ‘arte’ secondo la nostra interpretazione moderna, ovviamente), o alla potenza cromatica dell’espressionismo violento di Kirchner, al senso di muta sospensione di De Chirico. O ancora, confrontiamo l’eleganza timida dei ‘visini’ di Michelino da Besozzo con lo scalpitante spirito nordico di Rogier Van der Weyden o con la lucente ilarità kitsch delle opere di Jeff Koons.
Ecco, sono tutti caratteri, forme, segni tessuti in epoche diverse ma che hanno una stessa, identica finalità comunicativa, quindi artistica. Ovviamente, finalità identica, messaggio diverso: ognuno di questi artefici comunica attraverso formule espressive che producono significati estremamente differenti tra loro. L’opera d’arte dunque è un mezzo, un veicolo attraverso cui far passare un determinato messaggio, messaggio che rispecchierà perfettamente l’ambito in cui nasce, l’idea stessa che ‘informa’ di sé l’opera d’arte. Mi spiego meglio: l’arte religiosa, per fare un semplicissimo esempio, in quanto a finalità comunicativa, deve percorrere (necessariamente) sentieri totalmente diversi da quelli in cui si possono collocare, non so, l’amabilissima leonardesca Cecilia Gallerani (con ermellino) o l’eburnea Olympia di Monet, nate entrambe con uno scopo che non è neanche vagamente accostabile al fine a cui era destinata, per esempio, La Pietà di San Pietro. In definitiva, i messaggi che l’arte vuole o riesce a comunicarci sono il segno pressoché esatto delle società umane in cui vengono formulati: l’autore, artefice di un’opera d’arte, salvo rarissime eccezioni, è l’incarnazione stessa della società in cui vive e crea i propri manufatti artistici; egli inoltre si fa portavoce dei messaggi che i committenti gli chiedono di trasmettere.
L’arte intesa come artificio, cioè come creazione umana che si differenzia, evidentemente, da tutto ciò che troviamo già creato in natura (un laghetto di montagna, un campo fiorito, la luna piena…), proprio per questo suo carattere ambivalente (esiste ma, in realtà, non esiste finché non viene creata), rappresenta il mezzo ideale per poter prendere in considerazione anche un’altra idea piuttosto interessante, l’idea del ‘non visibile’. L’arte ha la capacità di divenire un ponte, un passaggio tra il ‘rappresentabile’ ed il ‘rappresentato’, un medium attraverso cui veicolare idee che provengono da un mondo non visibile; un mondo che, finché non viene rappresentato visivamente, formalmente, simbolicamente, è una realtà che si trova solo in potenza e non in atto. Non esiste ed esiste, allo stesso tempo. È rappresentabile ma non è ancora rappresentato.
Quindi, oltre alle conseguenze positive che può avere la purissima, nuda contemplazione estetica, anche il valore demiurgico cha l’artista evidentemente possiede, esercita nello spettatore una sorta di intimo, profondissimo conforto: la forma (data all’informe) è sempre qualcosa di rassicurante. Le cose mostrate, definite, rese misurabili e – beatitudine suprema – comprensibili, sono una delle più grandi consolazioni a cui l’essere umano riesca ad affidarsi. Alla fine, si attua lo stesso meccanismo per cui le cosiddette certezze/risposte fornite dalla scienza, hanno su di noi l’effetto di un potentissimo calmante: parla la scienza e noi tiriamo un sospiro di sollievo! In maniera ancora più semplice: il buio o una persona che non conosciamo, possono creare in noi ansie e paure difficilmente domabili. L’ignoto e l’informe che tanto ci destabilizzano, sono (non) paradossalmente dei veri e propri concetti-calamita per la nostra mente, li temiamo e ne siamo attratti al contempo. Poi però, nonostante l’appassionante nervosismo che può regalarci una stanza completamente buia, al palesarsi della luce, il sollievo è innegabile.
Torno all’arte. L’arte viene solitamente interpretata come qualcosa di lontano, come un compartimento chiuso, a sé stante, come un oggetto che se ne sta appeso alle pareti di un museo o collocato al centro di una piazza. L’arte è vista come una cosa che ci riguarda solo marginalmente: gli artisti, gli esperti, gli addetti ai lavori o i grandi appassionati, secondo noi, ne sono i veri promotori, custodi e fruitori. L’arte invece è parte integrante del vivere umano ed essendo un fenomeno umano e non naturale (nel senso in cui mi sono già espressa sopra), ha un rapporto strettissimo con tutto ciò che esiste ed accade nel momento stesso in cui le opere d’arte vengono elaborate e prodotte. Questo cosa significa? Significa che il senso estetico, il gusto e, più direttamente, l’idea di bello, coinvolgono la nostra percezione (in modo più o meno consapevole) grazie a tutta una serie di circostanze storiche, geografiche, sociali e culturali che si stratificano intorno e dentro di noi, costantemente. Il legame uomo-arte è potente e indissolubile, un’epoca storica o una civiltà senza arte, non sarebbe una civiltà umanamente immaginabile. L’espressione artistica è ciò che determina l’essere umano più di qualunque altra cosa: la musica, la pittura, la danza, il teatro, la scultura, la scrittura, la fotografia, forzano l’appartenenza umana al regno animale e danno all’uomo la possibilità di potersi porre su una scala diversa (non migliore o peggiore, solo diversa), rispetto agli altri animali; animali che, come nel caso di certi magnifici uccelli, costruiscono nidi straordinari per necessità o per conquistare la femmina corteggiata ma non certo per ‘nascondere’ all’interno della propria opera un intero repertorio di simboli o allegorie atte a suscitare nello spettatore vortici di emozioni e di stimoli intellettivi infiniti: La Primavera di Botticelli mi sembra un esempio perfetto per spiegare meglio questa mia considerazione.
Ho citato i nidi degli uccelli e penso, automaticamente, all’architettura, disciplina che merita un piccolo discorso tutto per sé. Gli architetti non sono né ingegneri, né artisti: sono architetti! Che vuol dire? Vuol dire che la ‘funzionalità’, quindi il rapporto strettissimo con il concetto di concretezza (un quadro viene appeso, un palazzo viene utilizzato), deve investire necessariamente tutte le fasi del progetto architettonico: dall’idea folgorante nata osservando, non so, una mantide religiosa su una foglia fino alla posa dell’ultimo mattone polimerico. Questa apparente distanza dell’architettura dall’arte, nasce dal fatto che, nell’idea collettiva, l’arte sia saldamente legata al concetto di astrazione. Come ho detto, però, è una distanza solo apparente. Anzi. L’architettura, proprio come la musica (che rispetto all’architettura viene percepita più facilmente come ‘arte’), basa la propria esistenza sull’ordine matematico e, cosa ovvia, non esiste astrazione più cristallina ed esatta della matematica. Quindi, mi pare che la distanza arte-architettura, non esista. Inoltre, inoltre, i più scettici, i puristi della funzionalità e dell’efficienza dell’architettura, potranno sempre orientare il proprio pensiero sulla bellezza delle piramidi di Giza, sull’eleganza dell’Eretteo ateniese, sulla policromia dirompente di Casa Batlló, sul Palazzo dell’Opera di Oslo (che sembra scivolare nel blu) oppure sulla magnifica torre di Frank Gehry, ad Arles, che pare un enorme menhir neolitico. Il confine tra funzionalità e capriccio o tra funzionalità e bellezza, può evaporare con estrema facilità. Poi, il fatto che esistano espressioni architettoniche semplicemente orribili, è un dato piuttosto evidente direi. Proprio come è evidente che esistano opere d’arte (quadri, sculture, installazioni) semplicemente orribili.
Per concludere. L’arte viene considerata come un passatempo (sia pensando a chi la crea che a chi poi ne fruisce), un ‘accessorio’ utile ma secondario per le società umane; esattamente come la speculazione filosofica o la poesia, che sono invece elementi vitali per l’uomo. L’arte è solitamente associata all’idea stupidissima di tempo libero. Libero da cosa? Libero dagli impegni che, secondo la nostra concezione contemporanea, sono prioritari, fondamentali nella vita di un individuo. Sarebbe certo il caso di riformulare il quadro delle priorità, soprattutto nella fetta di mondo dove vivo io, il mondo ricco, sano (si fa per dire) e ben nutrito. Il cosiddetto progresso, oltre ad aver generato una sperequazione sociale disastrosa, ha relegato l’individuo al ruolo di produttore e consumatore di cose e servizi che non sono realmente necessari, essenziali per sé e per il proprio sviluppo interiore. La coscienza della realtà che ci circonda è ormai ben radicata in noi. Ma, nonostante questo, continuiamo a voler rinunciare, consapevolmente, al totale ribaltamento delle priorità che ci siamo dati. Anche se può apparire paradossale, la maggior coscienza rispetto a tutto ciò con cui l’uomo farcisce la propria vita (strati e strati di inutilità, per lo più), va di pari passo con la sua progressiva regressione mentale e spirituale; ed è proprio tale regressione ad aver favorito – e a favorire – la proliferazione incontrastata (anzi, sostenuta da moltissimi individui) di tanta, tanta, tanta bruttezza.
Lucia Borri
Purtroppo “le speculazioni filosofiche ed i passatempo accessori” non hanno più l’indomita forza dei tempi passati. Dirompenti. S’è perso qualcosa di importante. Nuova era volgare. Viviamo, senza accorgercene, nei bui d’ombra di un’architettura che Poesia essa stessa era. Gente che scrive, ma non legge. Progetti solo “eco icone” .
Mi vorrà perdonare per il ritardo. ‘Gente che scrive, ma non legge’, pare un paradosso. Forse un ossimoro. Strano meccanismo quello per cui l’abbondanza di mezzi abbia portato come misero risultato il depauperamento della coscienza attiva, il rifiuto del dolore e del legame indissolubile (vitale) tra Eros e Thanatos. Vengono continuamente selezionati con cura i particolari irrilevanti. Di qualunque aspetto dell’umano vivere. I tempi dimostrano che non si vuole dare spazio alla ‘dirompenza’ della speculazione filosofica. Il vergognoso, offensivo teatrino comunicativo che ci hanno obbligato a dover seguire in questi mesi, ne è una triste prova.
Temo che tutto possa risolversi nella sua brillante intuizione: GENTE CHE SCRIVE, MA NON LEGGE.
La ringrazio molto. Lucia