Il Cortile Ottagono dei Musei Vaticani, cioè l’antico Cortile delle Statue in cui papa Giulio II (1503-1513) iniziò l’allestimento di una magnifica collezione di statue antiche, ospita una delle opere d’arte più belle del mondo.
Non oso dire che si tratti della più bella, in maniera assoluta, ma la tentazione di farlo è davvero enorme. Si tratta del gruppo scultoreo del Laocoonte [Fig.1], ritrovato a Roma, nell’anno 1506, durante gli scavi sull’Esquilino.
Fig. 1, Agesandros, Athanodoros, Polydoros, Laocoonte, 30-40 a.C., Musei Vaticani, Roma
Laocoonte era il sacerdote troiano votato ad Apollo Timbreo [1] che diffidò con tenacia dello straordinario dono votivo che i Greci volevano fare alla città di Priamo: il cavallo di Troia, costruito da Epeo con l’aiuto di Atena [Figg. 2, 3].
Fig.2, Atena, che indossa l’ègida, visita il laboratorio di uno scultore che lavora su un cavallo di marmo, forse Epeo su un modello per il cavallo di Troia (part.). Kylix attica a figure rosse, 480 a.C. ca., Staatliche Antikensammlungen, Monaco
Fig.3, Atena, che indossa l’ègida, visita il laboratorio di uno scultore che lavora su un cavallo di marmo, forse Epeo su un modello per il cavallo di Troia. Kylix attica a figure rosse, 480 a.C. ca., Staatliche Antikensammlungen, Monaco
Il cavallo di Troia, secondo le teorie dell’archeologo navale Francesco Tiboni, sarebbe stato in realtà un’imbarcazione fenicia denominata Hippos… Da qui forse un antico errore di traduzione della narrazione omerica e delle fonti a lui succesive, in cui il termine ‘hippos’ (ἵππος, cavallo), è stato interpretato e tramandato in maniera sbagliata. Se questo fosse vero (come sono veri molti errori di traduzione dagli originali antichi), l’immaginario collettivo occidentale subirebbe una sorta di catastrofico terremoto… Come potremmo riuscire a ‘pensare’ che il cavallo di Troia (con tutte le implicazioni simboliche che ne sono conseguite nei secoli), in realtà fosse una nave? No, dico… Una nave? Impossibile. L’ ‘idea’ del cavallo è per noi un’entità ormai esistente, ben conformata, radicata, stampata in maniera imprescindibile nei nostri lobi frontali, nell’Iperuranio platonico, probabilmente… Anche al cospetto della più sistematica esegesi filologica, io continuerò a credere che, in un tempo lontanissimo, un aedo errante abbia narrato di un enorme cavallo di legno nel cui ventre si erano nascosti i più valorosi guerrieri greci, tutti rannicchiati e silenziosi… Un’immagine semplicemnte spettacolare [Figg. 4, 5, 6, 7, 8, 9].
Fig. 4, Il cavallo di Troia, manoscritto miniato della British Library, Londra
Fig. 5, Arte armaiola milanese, Il cavallo di Troia, sella da parata e staffe, 1550-1575 ca., Pinacoteca Ambrosiana, Milano
Fig. 6, Giandomenico Tiepolo, La processione del cavallo di Troia, 1760
Fig.7, Salvator Dalì, Il cavallo di Troia, 1970-72
Fig. 8, Salvatore Fiume, Apparizione all’alba del cavallo di Troia, 1989-90
Fig. 9, Mariano Pieroni, Cavallo di Troia, plasticone polimaterico componibile
Torniamo a Laocoonte. Publio Virgilio Marone (Andes, Mantova, 70 a.C. – Brindisi, 19 a.C.), ce ne parla ampiamente nel II libro dell’Eneide, il poema in cui vengono narrate le gesta dell’eroe trioano Enea, padre di Iulo (Ascanio) che fonderà poi la stirpe da cui discenderanno Romolo, Remo e Giulio Cesare: la gens Iulia.
Nel tentativo che il sacerdote consacrato ad Apollo fa per dissuadere i Troiani, desiderosi di far entrare l’imponente regalo acheo all’interno delle mura della città, egli pronuncia una famosa frase che è diventata di uso comune e si rivela utile a descrivere tutte quelle situazioni in cui si continui ad essere cauti e diffidenti verso il nemico, nonostante le apparenze favorevoli e propizie… La frase in oggetto, che si trova al verso 49 del Libro II dell’Eneide, è questa: ‘Timeo Danaos et dona ferentes‘, cioè ‘temo i Greci anche quando recano doni’. Astuto e (inutilmente) scrupoloso, fu quindi il saggio Laocoonte…
Ma Atena, che parteggiava per gli Achei e che durante la Guerra di Troia difese stranuamente Achille, Ulisse, Menelao e Diomede, punì in maniera efferata, ferocissima il sacerdote troiano che cercava di opporsi all’ingresso rovinoso del cavallo nella città. Per non correre il rischio che si vanificasse la speranza della totale distruzione della città tanto odiata, la dea richiamò dal mare due enormi serpenti marini, Porcete e Caribea… I due feroci mostri acquatici, con le loro spire enormi, avvilupparono con forza tremenda i corpi dei due figli di Laocoonte e poi il corpo di quest’ultimo che tentava di difendere quelle giovani membra indifese; tutti e tre, infine, perirono inevitabilmente, morendo di una morte atroce…
‘Ed ecco (inorridisco nel dirlo) due serpenti, venendo da Tenedo per l’alta acqua tranquilla, si levano sull’oceano con spire immense e s’avviano insieme verso la spiaggia: i loro petti svettano tra i flutti, le sanguigne creste sorpassano l’onde, il resto del loro corpo sfiora la superficie dell’acqua: enormi groppe che s’attorcono in cerchi sul mare che, frustato dalle code, spumeggia fragoroso. E approdarono a riva: gli occhi ardenti iniettati di sangue e di fuoco, lambivano con le vibranti lingue le bocche sibilanti. Fuggiamo qua e là pallidi a tale vista. Senza esitare, i serpenti puntano su Laocoonte. E anzitutto, avvinghiati con molte spire viscide i suoi due figli piccoli, ne straziano le membra a morsi. Poi si gettano su Laocoonte che armato correva in loro aiuto stringendolo coi corpi enormi: già due volte in un nodo squamoso gli han circondato vita e collo: le due teste stan alte sul suo capo. Sparse le sacre bende di bava e di veleno Laocoonte si sforza di sciogliere quei nodi con le mani ed intanto leva sino alle stelle grida orrende, muggiti simili a quelli d’un toro che riesca a fuggire dall’altare, scuotendo via dal capo la scure che l’ha solo ferito. Infine i due serpenti se ne vanno strisciando sino ai templi più alti, raggiungono la rocca della crudele Minerva, rifugiandosi ai piedi della Dea sotto il cerchio del suo concavo scudo. Nuovo terrore s’insinua nelle anime tremanti di tutti noi: molti dicono che meritatamente Laocoonte ha pagato il suo grave delitto, egli che con la lancia colpì la statua di quercia scagliandole nel dorso la punta scellerata’ (Virgilio, Eneide II, vv. 203-231).
Il capolavoro conservato nei Musei Vaticani ‘fotografa’ il momento esatto in cui avviene il terribile attacco dei sinuosi serpenti marini sui corpi nudi e inermi dei tre protagonisti abbandonati al loro infausto destino. Ricco di pathos e di drammatico dinamismo portato fino all’estremo, il gruppo marmoreo viene descritto in maniera bellissima e suggestiva in un libro del 1955 dal titolo Storia dell’Arte. Manuale per le scuole e per le persone colte; si tratta di uno dei tanti libri che scovo, ogni volta, alla Fiera Antiquaria di Arezzo. Riporto quindi le parole degli autori del manuale, circa quest’opera strabiliante:
‘Scolpito a Rodi nella seconda metà del I secolo a.Cr., il gruppo del Laocoonte che ebbe fama secolare, fu trovato nel 1506 nelle Terme di Tito e subito celebrato oltre misura: la sua scoperta avveniva, infatti, in buon punto: a Roma, con la venuta di Bramante, di Raffaello, di Michelangelo s’era creato un centro di appassionato fervore artistico, soprattutto per la possibilità di studiare l’antico direttamente sul posto: e quando venne alla luce il gruppo del Laocoonte, noto a Plinio come opera di Agesandro, Atenodoro e Polidoro di Rodi, elemento vivo d’ispirazione per Virgilio, che l’aveva sotto gli occhi, quando scrisse il drammatico episodio del Sacerdote e dei figli nel II canto dell’Eneide, sembrò che l’antichità stessa offrisse il suo più alto esempio a modello del maturo Rinascimento nostro. Michelangelo stesso dette consigli per il restauro, il Sansovino ne eseguì numerose copie, tutti gli artisti che volevano portare in patria un ricordo di Roma, lo disegnarono con amore. La critica d’arte ha fatto, assai più tardi, giustizia forse eccessiva di questo gruppo, considerato esageratamente contorto, teatrale e barocco. Non c’è dubbio che in quest’opera si vedano gli estremi sviluppi della corrente plastica pergamena che, sui limiti ultimi dell’arte greca, è portata a caricare le tinte drammatiche e pittoresche; ma il gruppo, piuttosto che essere inteso come tragico episodio, va gustato come prodigioso traforo marmoreo nello spazio. La composizione, vista frontalmente, piuttosto come un altorilievo che come una scultura di tutto tondo, si sviluppa nel vuoto con magistrale scioltezza, ed ogni elemento del Laocoonte sottolinea la diagonale del gruppo, il quale, nel complicato divincolarsi si orienta, perciò, in una fondamentale chiarezza, fin troppo logica e addirittura scolastica. Giovan Angelo Montòrsoli restaurò il braccio destro della figura principale esaltandone la distensione verso l’alto, sottolineando, quindi, la disposizione obliqua dell’asse principale: ma da un frammento recentemente ritrovato, si ricava un più giusto completamento nel braccio piegato accanto al volto contratto, dal quale tutta la composizione assume maggiore compattezza. Visto nei particolari, il gruppo marmoreo impressiona per la maestria della tecnica: il marmo lucente è vinto nella sua durezza fino a sembrar cera molle: da questa abilità nascono gli effetti pittorici d’ombra sull’ampio torace di Laocoonte e la tempestosa congestione del viso, piuttosto “maschera” che trasfigurazione della sofferenza’ (Paribeni Roberto, Mariani Valerio, Serra Beatrice, STORIA DELL’ARTE. Manuale per le scuole e per le persone colte, Società Editrice Internazionale, 1955, pp. 73-74).
Il rifermento puntuale alle vere e proprie star del nostro Rinascimento compiuto, Bramante, Raffaello, Michelangelo, che guardano l’opera solenne come fonte inesauribile di ispirazione. Michelangelo avrà tanto da dire, grazie a questa scultura, nella rappresentazione dei corpi nudi nella Volta della Sistina (1508-1512). Poi il richiamo a Virgilio che ‘l’aveva sotto gli occhi’, emozione difficilmente descrivibile, e la definizione purissima ed attenta ‘prodigioso traforo marmoreo nello spazio’, che vale, da sola, l’acquisto del mio libro… Infine, altro particolare davvero straordinario, è quello inerente al ‘frammento recentemente ritrovato’, cioè al braccio ‘originale’ del Laocoonte, scoperto nel 1905 da Ludwig Pollak e riconosciuto come originale nel 1954. In questa mirabile descrizione dell’opera, sono concentrati elementi storici ed artistici che meriterebbero, uno ad uno, un racconto dettagliato…
Prima che, nel 1532-33, Giovanni Agnolo Montorsoli restaurasse la scultura con l’inserimento del braccio ‘allungato’ di Laocoonte, ci fu un altro importante intervento su quest’opera. Nel 1520, Il cardinale Giulio de’ Medici (futuro papa Clemente VII) commissionò a Baccio Bandineli (1493-1560), una copia in marmo, in scala naturale, del Laocoonte; omaggio da offrire al re di Francia Francesco I.
L’opera realizzata da Baccio Bandinelli tra il 1523 e il 1525 e oggi conservata agli Uffizi [Fig. 10], presenta l’integrazione delle braccia dei figli e del braccio del padre avvolto dal serpente (secondo il racconto di Virgilio). Si può dedurre quindi che fu lo stesso Bandinelli a creare questi inserti ‘anche’ nell’originale ritrovato a Roma, prima che intervenisse il Montorsoli nel 1532, con una lettura formale nuova e completamente sbagliata.
Fig. 10, Baccio Bandinelli, Laocoonte, 1523-1525, Uffizi, Firenze
Infine, nel 1957 Filippo Magi, eliminando gli inserimenti precedenti (Bandinelli, Montorsoli), comprese le braccia dei due figli, ricollocò il braccio orginale ritrovato agli inizi del Novecento [Figg. 11, 12] e ricreò l’equilibrio compositivo del maestoso gruppo statuario [Figg. 13, 14].
Fig. 13, Il gruppo del Laocoonte prima del 1957 Fig. 14, Il gruppo del Laocoonte dopo il 1957 e attualmente visibile
Nello spazio oggi visibile come Cortile Ottagono dei Musei Vaticani, anticamente, tra le piante di arancio e i più mirabili esempi della statuaria classica, i pontefici, immersi nello splendore silenzioso delle estati romane e della musica di sottofondo delle cicale, meditando sulla grandiosità delle opere d’arte raccolte tutte insieme, ‘inventavano’ il concetto stesso di Museo.
Lucia Borri
Note:
- Apollo Timbreo: questo epiteto ricordava il culto che veniva tributato al dio a Timbra, nella Troade. In quella città dell’asia Minore, sorgeva un tempio dedicato ad Apollo. Anche Dante Alighieri, rifacendosi a Virgilio (Eneide, III, v. 85, Georgiche IV, v. 323), nella Divina Commedia cita Apollo Timbreo: ‘Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte, armati ancora, intorno al padre loro, mirar le membra d’i Giganti sparte’ (Purgatorio, XII, 31-33).